Achille Capizzano Una breve biografia dell’artista Rendese.

A fine articolo troverete immagini del libro di Ugo Campisani, Artisti Calabresi e il video della mostra dedicatagli dall’associazione culturale Aria nuova.

Il link al sito ufficiale: http://www.achillecapizzano.it/

 

fonte:http://foroitalico.altervista.org/capizzano.htm

Biografia

Rende 1907-Roma 1951

Quando Achille Capizzano lascia la Calabria e si trasferisce a Roma (1923) per intraprendere gli studi artistici, si è da poco aperto quel terzo decennio del Novecento caratterizzato da un generale “ritorno all’ordine”.
Si è “regolarizzata” la vita politica con la fondazione del Partito Nazionale Fascista, si va “normalizzando” anche la produttività artistica, sempre più lontana dalle stravaganze delle avanguardie del primo e del secondo decennio.
Dopo la fioritura del cubismo, del futurismo e della metafisica si va facendo strada una stagione di riflusso che ripropone la centralità della tradizione e della storia, del classicismo e della fedeltà figurativa, del racconto e della celebrazione aulica.
Sono anche gli anni in cui si intraprende la costruzione della città fascista, espressione dell’architettura razionalista e della nuova organizzazione ideologica del territorio.
La formazione del giovane Capizzano avviene, dunque, in un clima di fibrillazione culturale dentro il quale si fanno avanti istanze spesso contraddittorie, che spingono da un lato verso la creazione di uno stile fascista, magniloquente e statalista, dall’altro verso un’arte popolare e privata.
E la sua pittura, in verità, oscillerà sempre fra questi due poli ovvero fra l’intervento pubblico e l’esercizio intimistico, fra l’ornamento monumentale e il piccolo formato, fra l’illustrazione dei grandi temi storico-mitologici e il vissuto personale, fra il progetto architettonico e l’appunto disegnato.
Architettura e disegno sono i due grandi riferimenti di Capizzano, gli aspetti complementari della stessa attitudine creativa, due facce della stessa medaglia.
La vocazione al disegno è abbondantemente coltivata fin dai tempi dell’Istituto e dell’Accademia di Belle Arti, dove – va ricordato – avveniva la formazione sia di pittori e scultori, ma anche di architetti. Certo l’incontro con un abile cultore del bianco e nero come Paolo Paschetto, suo maestro di Ornato, e con Ferruccio Ferrazzi, suo insegnante di Pittura Murale, gli vale più di ogni altra esperienza. Con loro impara a concepire il disegno come un supporto dell’architettura, facendo dell’immagine bidimensionale una sorta di preparazione o di completamento dell’opera architettonica.
Sono questi gli anni in cui sente forte l’influsso della pittura preraffaellita di fine Ottocento che gli ispira un elegante disegno di derivazione classicista. Il segno sinuoso, la sensualità delle forme trovano punti di incontro anche con il gusto Liberty, che propugna un’arte applicata alle strutture ed agli oggetti di uso quotidiano.
E, infatti, sulla fine degli anni Venti, figure variamente atteggiate in pose aggraziate sono inglobate nelle architetture degli interni, collocate come ornamenti per stanze in delicati fregi, che scorrono sulle pareti in modo estetizzante ed idealizzante.
Il sodalizio, poi, a partire dal 1930, con l’architetto Luigi Moretti, autore di molti progetti della “nuova” Roma, induce Capizzano ad occuparsi professionalmente di architettura in qualità di accurato disegnatore. L’incontro con questa arte non produce solo le tempere dei progetti, esatte e metafisiche, ma influenza tutta la sua pittura che corteggia costantemente i grandi spazi, l’impianto monumentale, le prospettive allungate.
Sembra quasi che la città fascista sia più immaginaria che reale. La fisicità distante e distaccata, l’aspetto straniato, le architetture scenografiche rendono gli ambienti estremamente irreali, anche quando dal progetto passano all’esistenza di fatto. II protagonista di queste visioni è più che altro lo spazio vuoto -l’uomo è evocato in absentia; le grandi piazze, pronte ad accogliere le grandi adunate di massa, sono prive di umanità. C’è infatti una stessa luce metafisica ed una stessa aura assente nei disegni di Capizzano per i progetti di Moretti e nei paesaggi con templi nitidi e figure enigmatiche eseguiti sulla fine degli anni Trenta.
Se da poco si è compiuta l’esperienza metafisica di De Chirico e Carrà, non si sono ancora mitigate le influenze del post-espressionismo di Matisse e del cubismo di Picasso. Mentre a Roma, in questo periodo, si ritrovano a operare artisti di varia provenienza culturale, poi nemmeno tanto separati dalle barriere ideologiche, se è vero che sotto lo stesso ombrello protettivo del fascismo convivono i futuristi di Marinetti e i passatisti della Sarfatti e del Novecento.
Capizzano guarda con curiosità ai movimenti delle avanguardie storiche ma non si lascia travolgere dalle mode culturali. La vicinanza ideale sembra invece stabilirsi con gli artisti di Valori Plastici e con il loro attaccamento alla solida tradizione rinascimentale di una pittura dall’impianto volumetrico.
“La tradizione dell’arte italiana – scrive Capizzano – è così vasta che tutti vi possiamo trovare un riferimento senza idolatrie; le quali hanno condotto, in tempi non troppo lontani, a risultati aridi e mancanti di possibilità di sviluppo o, per essere più precisi, del tutto professorali, senza vitalità cioè per l’arte che vive nei secoli”.
Infatti la sua interpretazione della via celebrativa all’arte è intrisa di contaminazioni, che da un lato recuperano la tradizione classicista dall’altro si concedono alle suggestioni della modernità.
Capizzano riesce in una certa misura a trovare punti di contatto fra la pittura vascolare greca e il primitivismo del Picasso post-cubista, ovvero di quello più “mediterraneo” incline all’arcaismo di una figurazione solida e dai forti accenti plastici. I mosaici del Foro Italico presentano questo uso “liberato” dello spazio antiprospettico e bidimensionale. Sono costruiti in modo tale che i vari “pezzi” di ogni riquadro interagiscano fra di loro stabilendo intrecci strutturali sapientemente dosati, che al di là delle forme geometrizzanti restituiscono una figurazione ben calibrata.
Le silhouette nere su fondo bianco con il disegno pure in bianco (o viceversa: le silhouette bianche su fondo nero con disegno nero) delineano i termini di una pittura eroica, severa e solenne, didascalica e monumentale.
Capizzano non aderisce mai ufficialmente alla poetica del Novecento, che, a dire il vero, quando entra nella scena artistica volge già al declino; dimostra tuttavia di farsene di fatto sostenitore, quale interprete più che altro di quella “pittura fascista”, il cui stile è individuato da Sironi come “antico e ad un tempo novissimo”.
Idealmente l’artista rendese, troppo giovane per far parte del gruppo della prima ora, trova nel novecentismo una sintesi della sua concezione dell’arte.
Si avverte nelle sue opere al Foro Italico realizzate fra il 1933 e il 1943 la stessa intenzione scenografica e la regia figurativa possentemente esibita da Carrà, Funi, Sironi e Cagli nella Triennale di Milano del 1933. Intanto, si va facendo strada un’apertura verso soluzioni più pittoriche e meno disegnate; la sintesi formale e l’assolutezza cromatica del bianconero si evolve agli inizi degli anni Quaranta, in una pittura di concertazione più ampia, più analitica, che evoca i toni e le atmosfere della pittura di Giotto e di Piero della Francesca, nei colori terrosi e caldi, ma anche nella composizione ad episodi articolati, dove tutto accade simultaneamente.
Nel grande bozzetto per il mosaico dell’Impero pensato per il Palazzo dei Congressi all’Esposizione Universale del 1942, Capizzano si avvicina alla pittura di Achille Funi e di Afro Basaldella, con i quali avrebbe dovuto dividere l’onore delle grandi decorazioni parietali del palazzo. Forse è proprio in questa opera che si coglie meglio che altrove il carattere corale di un tipo di pittura, che incarna sempre più l’ideale fascista di un’arte sociale. Più che nel Palazzo della Triennale di Milano dove ancora si colgono differenziazioni e slanci soggettvi, sembra attuarsi nell’E42 in generale e nel Palazzo dei Congressi in particolare, una sorta di opera collettiva, dove ogni singolo intervento si invera nel contesto.
Capizzano partecipa a questa grande impresa unitaria con l’apporto di stilemi pittorici che ricordano la pittura pompeiana e l’arte compendiaria paleocristiana.
II tentativo di individuare, uno stile comune capace di restituire l’arte alla maestosità dei grandi cicli pittorici del passato, con un’attenzione ai temi allegorici, storici e religiosi, porta questi artisti “allineati” a concepire una tipologia a schema multiplo e a comparti, con le terre come colori unificanti.
Sono cercate affinità elettive con gli affreschi e i mosaici delle epoche insigni, ci si cimenta con gli argomenti epici e le celebrazioni storiche.
Tuttavia, l’adesione ad un modello unitario non impedisce a Capizzano di trovare soluzioni compositive e narrative che raccordino le varie scene in un continuum cromatico arioso e solare.
Nè innovazioni formali, dunque, nè esibizioni prorompenti della personalità ci troviamo di fronte ad una accettata collettivizzazione della pratica artistica, che, ciò premesso, risulta assai coerente con quanto professato, salvo a scoprire, a conti fatti, che è tutta la produzione dei Novecentisti ad essere in qualche modo omologata.
L’illusione di un’arte contemporaneamente grandiosa e grande, che identificasse gli ideali del regime, ma anche quelli inerenti a se stessa, legati al rinnovamento dei codici espressivi, si infrange contro una realtà di fatto incline alla retorica e all’apparenza. Alle strumentalizzazioni politiche dei grands commis intellettuali del regime, come Oppo e Sarfatti, si contrappone la ingenua adesione ad una improbabile arte fascista di personaggi come Capizzano, che, in linea con i novecentisti, dimostra di preferire più un’arte nazionale che “di Stato”.
Pur vivendo appieno il clima politico e di amicizie del Ventennio e collaborando con aristocratici architetti del regime come Luigi Moretti e Adalberto Libera, Achille Capizzano, rimane in fondo un uomo semplice ed un artista che vuole farsi capire dalla gente. Adotta così, come lui stesso appunta, “una simbologia elementare atta ad essere chiaramente intesa dal popolo a facilitare la lettura delle composizioni a carattere politico e memorativo”.
Nell’Impero cita l’iconografia della pittura antica, traducendola in immagini immediate, dai modi popolari. Mentre il racconto assume i toni della quotidianità, con scene di gusto pastorale e di intento divulgativo.
La spontaneità e gli slanci soggettivi, tuttavia, non competono, per Capizzano, all’arte pubblica. Il decoratore murale è altra cosa dal pittore di quadri. Ed è in questi ultimi che l’artista rendese, libero da preoccupazioni didascaliche e propagandistiche, si lascia andare alle emozioni, esplora le sensazioni nascoste, assume il tono confidenziale.
Anche il formato delle opere è ben distante dal titanismo dei mosaici. Diminuendo le dimensioni dello spazio pittorico è come se si discendesse in una dimensione riposta, intima e spirituale.
“La decorazione concepita come esteso racconto – scrive nei suoi appunti Capizzano – è cosa ben differenziata dal quadro inteso come espressione lirica, semplice, istantanea”.
Anche i modi della pittura si fanno veloci e si rivolgono alla sfera privata. Le suggestioni sono tratte dalla vita quotidiana, dall’ambiente circostante, dalla memoria personale. Le immagini accennano alle sensazioni, rivelano un modo di essere e di pensare.

 

 

 


I nudi, le vedute cittadine, le nature morte, il paesaggio, i soggetti religiosi, i ritratti della moglie e della figlia si aggiungono ai temi simbolici, mitologici e storici.
La figurazione ripercorre le tappe salienti dell’arte fra la fine dell’Ottocento e per tutta la prima metà del nostro secolo. Dalla pittura densa dei Nabis, un pò ingenua e formalmente semplificata (Donna in sottoveste, La recita), a quella fervida di pennellate e di colori alla Matisse (Orfeo, L’amore nei secoli, Scena mitologica), dalle visioni metafisiche delle nature morte di Carrà (Natura morta con conchiglia e ocarina) a quella dei paesaggi di De Chirico (Senza titolo del 1938), dall’immediatezza gestuale e monocromatica di De Pisis (i monotipi) al visionarismo espressionistico della Scuola Romana (Casa di Nerone, n Palatino, Piazza del Popolo).
Quella che apparentemente potrebbe sembrare una produzione artistica di risulta dalle correnti e filoni stilistici di varia identità, è in realtà il rivelatore di un clima di contaminazioni culturali estremamente ricco e problematico. In fondo, i confini fra i vari movimenti e le varie correnti non sono in realtà così netti come vengono indicati nei manuali di storia. A maggior ragione per chi opera con discrezione e riservatezza, spesso lontano dal clamore dei riflettori di una cronaca avida di primedonne, la pratica dell’arte assume contorni più sfumati e si identifica più con una testimonianza di vita che non con l’assunzione di stilemi predeterminati dalla fede estetca abbracciata.
Ne deriva per Capizzano una pittura composita ricca di apporti iconografici e stilistici, che testimoniano la sua piena adesione allo “spirito dei tempi”, ovvero a quella temperie culturale, che fra slanci e contraddizioni, caratterizza l’arte della prima metà del XX secolo.
L’esercizio della pittura si configura come una sorta di esperienza complessa, nella quale differenti spinte creative si pongono in equilibrio dinamico; la conoscenza delle varie correnti poetiche, la sensibilità per il fare, la passione per il dipingere consentono a questo artista di valutare i fenomeni artistici con grande serenità.
La sua onestà intellettuale, di chi non conosce furbizie o scorciatoie, gli fa filtrare i contributi culturali provenienti da varie parti, con sincerità d’intenti, assumendo solo ciò che gli pare utile alla sua “missione” d’artista. Capizzano è un artista trasversale alle grandi correnti, non obbligato nè dalle ideologie artistiche nè dalle logiche di mercato ad uno stile predefinito.
È un candido citazionista che avverte la crisi del moderno quando essa non si è ancora del tutto compiuta. In un’epoca fatta di movimenti, che pretendono di porsi totalitaristicamente come gli unici interpreti degli sviluppi dell’arte, egli più modestamente si guarda attorno, incuriosito e smarrito, per cercare di raccapezzarsi.
Nella Roma degli anni Quaranta compiono esperienze simili alle sue Fausto Pirandello, Montanarini, Guzzi, Tamburi, Scialoja, Guttuso, nonchè Angelo Savelli (calabrese come lui) e Giuseppe Capogrossi ancora pre-astratti, che pongono le basi della ripresa degli anni Cinquanta e seguenti.
Il carattere mite e riservato di Capizzano e la sua prematura morte a soli quarantaquattro anni non gli hanno consentito di trovare una sua collocazione nel panorama successivo alla caduta di Mussolini.
Per di più, una critica ideologicizzata e monodiretta ha costretto l’artista del Foro Musslini a quella dannatio memoriae, che ha posto in oblìo tanti artisti ed intellettuali, che a vario titolo sono stati fascisti.
Solo da una quindicina d’anni a questa parte, l’arte italiana degli anni Venti e Trenta è oggetto di studi sistematici, che intendono analizzare la complessità dei fenomeni culturali, con la conseguente rivalutazione dell’opera di coloro, che hanno legato il proprio nome agli avvenimenti del periodo.
Una rilettura dell’opera di Capizzano, fatta con occhi sgombri da pregiudizi, può far scoprire non solo un artista di un certo interesse, ma contribuire alla ricostruzione del contesto in cui ha operato, gettando nuova luce su una delle pagine piu’ gloriose  nostra storia recente.